domenica 10 giugno 2007

Bono (U2) parla di Prodi

Can I ask if you've had a meeting with any leader at this summit that you feel is not keeping a promise there?

Well, we met with the Italian prime minister, Romano Prodi, and to be fair to the situation, the United States underpromised and has overdelivered; Italy overpromised and is really underdelivering. And it was a very, very tense meeting and we weren't sure we were going to get anything. We got up to leave and they said, 'Stop, just please wait,' and we said, 'We've got to go to meet the president of France,' and they said, 'Please, please wait and we think we have something.' They disappeared around the corner, came back with a proposal which may turn Italy around.

Now, you may think that's absurd. You know, what does an Irish musician have anything to do with that? But actually, they're not afraid of me; they are afraid of our audience. And they're afraid of this movement that I'm trying to tell you about. And that's not about a photo op; that's about a man putting his credibility on the line with the Italian public. And I think we might have got some movement. We then had to explain to the president of France why we were late; we just said, oh, it's the Italians – (laughter).

And he was fine with that, I'm sure.


And he just, you know, he rolled his eyes and smiled.

venerdì 27 aprile 2007

Privatizzazioni e nostalgie

La privatizzazione di Alitalia si è persa nella nebbia. In gennaio il minis tro Tommaso Padoa- Schioppa disse che era cosa fatta. Sono trascorsi tre mesi e ancora non è cominciata la due diligence, cioè l'analisi dei conti della compagnia da parte dei tre concorrenti. Il governo tira per le lunghe, forse aspetta che gli stranieri rimasti in gara, Aeroflot e il fondo americano Texas Pacific Group, si ritirino. A quel punto finirà per vendere ad Air One, unica compagnia italiana che partecipa alla gara.
Così si risolverebbero molti problemi. La nuova compagnia avrebbe il monopolio della tratta Milano-Roma, una gallina dalle uova d'oro che consentirebbe di evitare riduzioni di personale e l'eliminazione dei molti privilegi di cui oggi godono i dipendenti Alitalia. Il tutto, come sempre, sulle spalle dei consumatori. Perché l'Antitrust non dice che se Air One vincesse quella gara dovrebbe cedere ad altri metà degli slot Milano-Roma?
La realtà è che nessuno vuole più privatizzare alcunché. Chissà quale teoria giustifica la proprietà pubblica di una stamperia come il Poligrafico dello Stato in un Paese che ha un debito pari al 115% del Pil. Perché sindaci e presidenti di Provincia — che ogni giorno lamentano la scarsità delle loro risorse — devono possedere, e spesso aumentare, le loro quote di autostrade e altre imprese locali? Berlusconi in cinque anni di governo ha venduto solo una piccola azienda di tabacchi e oggi Prodi — come ha scritto Franco Debenedetti sul Sole 24 Ore
— sembra vergognarsi delle privatizzazioni del suo primo governo.
C'è nostalgia delle vecchie imprese pubbliche. Attribuire all'attuale governatore della Banca d'Italia, che allora dirigeva il ministero dell'Economia, e al ministro del tempo, Carlo Azeglio Ciampi, la colpa di aver privatizzato solo per fare cassa è diventato un refrain
quotidiano. La storia evidentemente non lascia traccia. Si dimentica che l'Iri di fatto fallì e che Telecom fu privatizzata per evitare quel fallimento. Si dimentica che l'obiettivo delle privatizzazioni era uscire da un sistema sovietico in cui metà dell'economia e tutte le banche erano controllate dalla politica.
C'è nostalgia dei manager pubblici, i vecchi boiardi. Gli imprenditori che hanno gestito Telecom in questi anni forse non sono stati molto efficienti, ma dieci anni fa Biagio Agnes ed Ernesto Pascale, i manager che gestivano i telefoni di Stato, proponevano di indebitare l'azienda fino al collo per cablare tutta l'Italia (il «Piano Socrate»): è stata Telecom privata a sviluppare la tecnologia che oggi consente di far transitare la banda larga Adsl sul vecchio doppino di rame, senza bisogno di cablare alcunché. In realtà Agnes e Pascale volevano indebitare la società perché così essa sarebbe diventata invendibile, e i loro posti garantiti. Furono anche tanto lungimiranti da internazionalizzare l'azienda comprando partecipazioni a Cuba e in Serbia, con il risultato che Telecom ebbe sempre difficoltà sul mercato statunitense. Altro che internazionalizzazioni vietate dal ministro dell'Economia, proposte delle quali non vi è traccia nei verbali del consiglio di amministrazione della società.
Ciampi e Draghi vengono accusati di aver consentito che i privati acquisissero il controllo di Telecom attraverso «scatole cinesi», un fatto che oggi preclude ai piccoli azionisti della società la possibilità di incassare il premio di maggioranza che invece incasseranno gli azionisti di Olimpia nel momento in cui venderanno le loro azioni Telecom.
Si dimentica che le scatole cinesi non nacquero al momento della privatizzazione, ma più tardi, quando Roberto Colaninno lanciò la sua Opa. In quell'occasione il ministero dell'Economia, preoccupato sia delle «scatole cinesi» sia del debito che l'Opa avrebbe indirettamente riversato sull'azienda, voleva consentire al consiglio di amministrazione di Telecom di difendersi. Furono il presidente del Consiglio, Massimo D'Alema, e la Consob (che impose a Telecom di osservare la
passivity rule prima ancora che Colaninno avesse trovato le risorse necessarie per lanciare l'Opa) a impedire quelle difese. (Si legga Giuseppe Oddo,
Sole 24 Ore dell'11 aprile).
Il rafforzamento delle Autorità di controllo era uno dei primi obiettivi del programma dell'Unione. Dopo un anno di governo c'è un disegno di legge governativo il cui iter parlamentare è perlomeno incerto e poi qualche scelta sorprendente nelle nomine alle Autorità. Nel frattempo, attraverso fondazioni e banche amiche, il governo sta cadendo nel vecchio vizio di intervenire nelle scelte del mercato.

Francesco Giavazzi, Corriere della sera, 26 aprile 2007

giovedì 26 aprile 2007

Antipolitica

Dai giornali di ieri: vicino ad Ascoli il furgone guidato da un rom ubriaco investe e uccide quattro ragazzi; l'autista non si ferma ma viene arrestato. Poche ore prima, a Verbania, la conclusione giudiziaria che fatti simili hanno di solito in Italia: anche lì guida in stato di ubriachezza, investimento e uccisione di una ragazza di 17 anni, omissione di soccorso, poi l'arresto. Risultato del processo? In seguito al patteggiamento, una condanna a 17 mesi, e dunque neppure un giorno effettivo di carcere: insomma, il rom di cui sopra può stare tranquillo. Tutto beninteso in nome di una legge votata dal Parlamento della Repubblica: una legge che autorizza l'ingiustizia, che irride ad Abele con il ghigno di Caino, ma che naturalmente nessuno penserà a cambiare. Ed è così che dilaga l'antipolitica, è così che i cittadini si allontanano dalle istituzioni: non per colpa di «Porta a Porta» o della globalizzazione. In Italia è il senso della realtà che obbliga al qualunquismo.

Ernesto Galli Della Loggia, Corriere della sera, 26 aprile 2007

mercoledì 25 aprile 2007

Russia bids bittersweet farewell to Yeltsin

Boris Yeltsin was laid to rest in Moscow's Novodevichy cemetery today after a final emotional kiss from Naina, his wife of more than 50 years.

Russia's first popularly elected president had early become the first Kremlin leader to receive a traditional Orthodox funeral since Tsar Alexander III in 1894, although in a mark of his reputation as a maverick he was buried not in Red Square but alongside his country's artists and writers.

A host of Russian and foreign dignitaries attended the funeral to pay their final respects to the man who helped kill off Soviet Communism, including George Bush Snr and Bill Clinton, the two US presidents whose terms coincided with his time in the Kremlin.

Also bidding farewell to Yeltsin were Mikhail Gorbachev, the Soviet Union's final leader who became a bitter political rival, and Vladimir Putin, Yeltsin's handpicked successor.

The dignitaries greeted Yeltsin's widow, Naina, and two daughters, Tatyana and Yelena, who sat beside his open coffin at in the gold and marble splendour of Moscow's Christ the Saviolur cathedral to receive condolences.

A sombre-looking Mr Clinton, one half of what was known as "the Bill and Boris show", stooped to put his right arm around Naina’s shoulder, pulling her tightly towards him and then patting her gently on the back.

But the farewell from Yeltsin's compatriots was at best ambivalent, and the funeral appeared to have become a rallying point for opponents of President Putin.

A moment of silence in Russia's lower house of parliament was marred by the refusal of Communist deputies to get to their feet. "We will never give honour to the destroyer of the fatherland," said Viktor Ilyukhin of the former Communist party boss from the Ural mountains.

An estimated 20,000 people attended Yeltsin's lying-in-state at the Christ the Saviour cathedral, blown up by the Soviet dictator Josef Stalin and rebuilt under Yeltsin as a symbol of Russia's rebirth.

But even though Mr Putin had declared a day of national mourning, there was no outpouring of national grief and no massive crowds. Millions of Russians just got on with their daily lives.

"My mum thought Yeltsin was great because he gave us democracy. My dad hates him because he thinks he ruined a great country. I came here to have a last chance to see this man," said Marina Shestakova, a Moscow student who joined the mourners.

"He gave us a choice - not just a choice between cheese and ham, but the possibility to think for ourselves," added Alla Gerber, another mourner. "He took us out of the claws of that terrible regime."

Throughout the night, mourners filed past Yeltsin's coffin, many carrying flowers or portraits of the late president as white-robed Orthodox priests chanted hymns.

Several hundred mourners were turned away as the cathedral was closed off to the public at midday precisely and the dignitaries arrived for Yeltsin's funeral.

After an 85-minute service, the funeral procession moved on to Novodevichy, the traditional resting place of eminent Russians including writers such as Anton Chekhov.

The coffin was brought to the cemetery on a gun carriage guarded by goose-stepping soldiers and followed in procession by bishops clad in white robes, family members and guests including Mr Putin and Sir John Major, the former British prime minister.

As the coffin arrived, the Russian tricolour flag covering it was removed and kissed by Yeltsin's widow. While a choir of nuns sang funeral chants, she went over to her husband’s coffin and bent over him, stroking his face and kissing him.

The coffin lid was then screwed down before it was slowly lowered into the ground to the accompaniment of the Russian national anthem and three salvos fired from a row of cannons positioned nearby.

The cemetery has a section set aside for public figures but the Izvestiya newspaper reported today that Yeltsin's family had wanted him buried alongside artists, not Soviet-era apparatchiks.

His final resting place was in a plot near the graves of a Soviet-era illusionist, Igor Kio, the ballerina Galina Ulanova and actor Yevgeny Urbansky, best known for playing a construction boss in a film called Communist.

The Russian flag hung at half-mast at the White House, where Mr Yeltsin had stood upon a tank in 1991 to defy the putsch by Communist hard-liners and bring the Soviet regime to an end.

Later, he ordered tanks to fire on the same building, part of the complex legacy of the man whose presidency continues to divide opinion in the country. Most of those who turned out to pay their respects regard Mr Yeltsin as the man who liberated them from Communism.

But millions of Russians hold him responsible for the social and economic chaos that engulfed the country in the 1990 as the Soviet state collapsed. They look back bitterly at the era of "wild west" capitalism that enriched a tiny class of oligarchs and plunged so many into poverty.

The times, april 25, 2007

The devil on Yeltsin’s shoulder won the battle

Boris Yeltsin’s most important moment was not what he did in August 1991, when he stood on top of a tank outside the White House, but what he did not do when he took power. Yeltsin declined to wipe out the other side. For the first time in Russian history the new ruler did not eliminate the losers to consolidate power. What’s more, they were free to participate in political life.

Out of nowhere, the career bureaucrat literally leapt to the front lines armed with an instinct for breaking down barriers. And yet Yeltsin’s inconsistency was boundless. He allowed regional leaders to have more power but dived into the tragic war in Chechnya. He waged war against privileges for the elites but later opened the floodgates for the oligarchs to loot Russia. He promoted free elections, our first and last, but then hand-picked his successor.

His presidency was always a struggle between these democratic instincts and his lifelong grounding in the nomenklatura. On one shoulder the angel of freedom and democracy whispered into his ear about elections and capitalism. On the other shoulder the nomenklatura devil whispered about control and favours. In the end, the devil won out with the appointment of Vladimir Putin.

Yeltsin’s second term was a nightmare on almost every front. He had outlived his moment by 1996 and it would have been best for a democratically elected successor to have followed him at that point. But missed opportunities were inevitable considering the magnitude of the changes and problems he confronted. It’s still too early to analyse what Yeltsin could have done better, but it is simple to compare how things have gone since Putin took over in 2000.

There was chaos, but Yeltsin never attacked individual freedoms. Putin has built his entire presidency to be the opposite of the Yeltsin years, with a great deal of success. The entire Government has been brought under Putin’s direct control. The parliament attempted to impeach Yeltsin at one point; now it is a puppet show. The corruption of the oligarchs has moved inside the Kremlin walls where it has expanded to fantastic levels. The media, which was free to criticise Yeltsin, is entirely at the service of the Putin administration. The economy is where we see the biggest difference, although most of the credit must go to the simple fact that during Putin’s tenure the price of oil went from $10 a barrel to nearly $80. Even with these untold energy riches the average Russian sees little improvement in his living standards.

Boris Yeltsin was a real person; he had virtues and vices in his flesh and blood. Now we’ve exchanged that for a shadow. If only in those final days the angel on Yeltsin’s shoulder had whispered a little louder. Instead of a KGB lieutenant-colonel dragging the country back into a police state we might have had time to realise that a little chaos is a good thing.

Garry Kasparov, The times, april 25, 2007

La scoperta dell'acqua

Le risorse idriche sono una cosa seria, bisogna pagarle per migliorarle

In seconda pagina ci occupiamo delle singolari abitudini igieniche del presidente del Wwf Italia, Fulco Pratesi. Egli risponde al problema del risparmio idrico con una certa dose di stravaganza e di moralismo. In realtà, i consumi privati di acqua corrispondono al cinque per cento del totale e non è lo spazzolino la causa delle crisi idriche. Però le posizioni estreme possono servire a ragionare. In Italia, in gran parte della popolazione – nonostante ancora oggi i razionamenti idrici siano utilizzati in alcune zone del Mezzogiorno, peraltro ricche di acque disponibili – è subentrata una certa disinvoltura nell’attitudine al consumo, come se limitare gli sprechi fosse socialmente disdicevole. Seconda questione: la ristrutturazione della rete. Da almeno trent’anni, indipendentemente dalla piovosità (quest’anno è scarsa, ma la rete era un colabrodo anche negli anni precedenti), si discute della necessità di ammodernare la rete idrica. Il nostro è un paese che ha una disponibilità di acqua procapite molto elevata e una altissima inefficienza della distribuzione. I calcoli oscillano, ma ragionevolmente si stima che il 13 per cento delle famiglie ha problemi di disservizi idrici, che la dispersione d’acqua (cioè la differenza tra quanto immesso in rete e quanto viene consumato) è del 28 per cento, che diventa il 36 per cento nel Mezzogiorno, con picchi del 50 per cento. La questione è ancora più grave se si misuri il rapporto tra acqua immessa in rete e acqua fatturata. Solo il 59,9 per cento dell’acqua viene pagata, il resto si perde negli sprechi, nei disservizi e nei furti. Queste cifre non sono segrete, sono pubbliche. Esiste un’autorità di vigilanza sulle risorse idriche che le raccoglie. Dunque, invece di invocare ciclicamente lo stato emergenziale, i governi dovrebbero lavorare a una soluzione. La strada migliore è quella dell’aumento del prezzo. A Roma l’acqua costa 0,88 euro al metro cubo, ad Amsterdam 1,47 (a Berlino, dove si esagera nell’altro senso, 4,30). L’aumento del prezzo sarebbe un disincentivo al consumo facile e consentirebbe di reperire una parte delle risorse necessarie a una ristrutturazione generale della rete idrica il cui costo è calcolato in oltre 50 miliardi di euro, compresi gli impianti di depurazione, la rete fognaria o i desalinizzatori. Anche perché c’è un altro tema pressante: da qualche anno per l’approvvigionamento idrico estivo, le centrali elettriche fanno concorrenza all’agricoltura. Per non correre il rischio, un giorno o l’altro, di dover scegliere tra ortaggi e condizionatori d’aria, bisogna investire. Gli appassionati di reti tengano a mente che l’acqua non è meno importante dei telefoni.

Il foglio, 25 aprile 2007

Il pil socialista

La spesa pubblica italiana è pari ai due terzi del reddito nazionale netto

Nel 2006 in Italia, secondo i dati Eurostat, la spesa pubblica ha superato il 50 per cento del pil. A comporre il pil concorrono anche le imposte indirette che sono un 14 per cento e gli ammortamenti che sono un altro 12 per cento. Dunque il prodotto nazionale netto è il 75 per cento del pil. E poiché 50 su 75 fa 0,66, la spesa pubblica italiana è oramai pari a due terzi del reddito nazionale o prodotto netto. L’aumento della spesa sul pil rispetto al 2005 è di due punti, che diventano 2,66 misurati sul prodotto netto. Il 2006 è stato un anno speciale, perché gli si sono addossati oneri eccezionali per rimborsi Iva e per la statizzazione di Ispa, società di infrastrutture della Cassa depositi e prestiti. Ma questo non è un buon motivo per passare sotto silenzio questo record italiano. Perché di record si tratta, dato che in Europa solo la Francia, paese statalista, ci supera con il 53 per cento di spesa pubblica sul pil. Austria e Belgio sono al 49 per cento, la Finlandia e la Svezia mezzo punto sotto. La Germania è al 45,7 e la media dell’Europa a 12 è del 47,4 per cento. Inoltre, per gli investimenti in grandi opere, il passaggio dalla finanza di progetto a quella statale, secondo i principi dell’attuale governo, che ha creato oneri straordinari sul 2006, comporta nuovi gravami strutturali di spesa pubblica, salvo che a queste opere si rinunci. E la dilapidazione del cosiddetto tesoretto, che si sta verificando, non promette nulla di buono per il 2007. Se la spesa pubblica raggiunge i due terzi del reddito prodotto dagli italiani, ciò vuol dire che la nostra è una economia largamente socializzata. E allora è facile capire perché il pil cresca così poco.

Il foglio, 25 aprile 2007

La Bce: "In Italia si pagano troppe tasse"

Bruxelles - In Italia si pagano troppe tasse: il 65,8% rispetto al 64,1% della media di Eurolandia e al 37,3% degli Stati Uniti. Particolarmente pesante il cuneo fiscale e contributivo, che rappresenta quasi la metà della pressione fiscale complessiva: il 31,8%, di cui il 24,9% a carico delle imprese e il 6,9% sui lavoratori. L'altra metà è composta da tasse sul reddito e sui consumi. E' quanto emerge da uno studio della Bce - contenuto nel 'Working paper' di aprile - che denuncia l'elevata tassazione in tutta l'area dell'euro.

Conclusione: se in Eurolandia si tagliassero tasse e contributi sociali portandoli al livello degli Stati Uniti, nel lungo termine l'economia crescerebbe del 12% e i salari del 25%, sottolineano gli esperti dell'Eurotower. La conferma che cittadini e imprese italiani sono tra i più tartassati d'Europa sta nei numeri che corredano lo studio, in cui si sottolineano le ripercussioni negative sulla crescita economica, sugli investimenti delle aziende, sui salari e sul costo del lavoro. E se è vero che le Bce ha più volte frenato su un'immediata riduzione delle tasse nel nostro Paese - visto che la priorità resta la riduzione del debito e della spesa per risanare definitivamente i conti pubblici - dai numeri appare chiaro che prima o poi il nostro Governo dovrà fare i conti con una pressione fiscale che ci pone in testa alla classifica di Eurolandia, dietro solo a Belgio, Francia e Germania. Paesi, questi ultimi, che però crescono molto più del nostro e che presentano un profilo delle finanze pubbliche nettamente migliore.

Sul fronte del cuneo fiscale e contributivo, in particolare, il livello del 31,8% in Italia è di fatto sotto la media di Eurolandia (33,7%). Ma ci sono due considerazioni da fare. La prima - come emerge dallo studio - è che tale cuneo in Italia grava soprattutto sulle imprese (24%, contro il 21,9% della media Ue-12), che sono praticamente le più colpite in Europa insieme a quelle francesi. La seconda è che nei Paesi in cui il livello del cuneo è complessivamente più elevato, molto più leggero è il peso sia dell'Iva e delle altre tasse sui consumi, sia quello delle imposte sul reddito. In entrambe i casi, invece, l'Italia sfora ampiamente la media dell'eurozona. Le tasse sui consumi, infatti, si attestano al 20% (contro il 18,3%) e quelle sul reddito al 14% (contro il 12,2%). In generale, nello studio della Bce si sottolinea come "il carico fiscale nell'area dell'euro è notevolmente più elevato che negli Stati Uniti", circa 27 punti percentuali in più.

In particolare, i ricercatori della banca centrale europea mettono in evidenza come "la maggior parte dei governi ha pesantemente caricato la parte dei contributi sociali e previdenziali sulle imprese", circa il 21,0% contro il 7,1% degli Stati Uniti, vale a dire quasi 22 punti in più. "Abbassando il carico fiscale nell'area dell'euro ai livelli degli Stati Uniti - concludono gli studiosi della Bce - il risultato sarebbe un aumento delle ore lavorate e della produzione di oltre il 10% nel lungo termine". L'economia crescerebbe così del 12% e i salari del 25%.

Il giornale, 25 aprile 2007

domenica 22 aprile 2007

Dodicenne taglia la gola a una "spia" afgana

Talebani oltre ogni orrore. In un video recapitato alla tv Al Arabiya, si vede un commando talebano che incarica un ragazzino di dodici anni (foto) di tagliare la gola a un afgano accusato di aver aiutato gli Stati Uniti a uccidere uno dei capi della milizia fondamentalista.

L'emittente di Dubai ha mostrato solo la prima parte del filmato in cui si vede un ragazzo con un grande coltello mentre alcuni uomini incappucciati tengono fermo un uomo identificato come Gholam Nabi. Fu lui, secondo i Talebani, la spia che fece la soffiata che a dicembre permise a un elicottero Usa di centrare l'auto su cui viaggiava Akhtar Mohammad Osmani, il delfino del mullah Omar. Secondo Washington si trattava del più alto in grado nelle gerarchie talebane mai ucciso dalle forze alleate. I talebani dapprima smentirono l'uccisione di Osmani, designato come proprio successore dal mullah Omar nel 2001, poi la confermarono.

Nella prima parte del video, Gholam Nabi viene portato in macchina sul luogo dell'esecuzione. Lo si vede mentre discute con i suoi aguzzini, forse ancora ignaro della sua sorte. Poi la telecamera mostra l'uomo inginocchiato e il ragazzino con il coltello. Intorno, altri bambini e bambine incapucciati. Il ragazzo col coltello avvicina la lama al collo dell'uomo. Poi, Al Arabya ha ovviamente tagliato le immagini.

Intanto proprio il mullah Omar ha chiesto ai suoi uomini di intensificare gli attacchi suicidi in Afghanistan e di restare uniti. Il mullah Hayatullah Khan ha riferito che Omar ha contattato i comandanti regionali per ringraziarli degli attacchi compiuti ed esortarli a continuare e a intensificare le azioni suicide "contro le forze d'occupazione e gli infedeli che presto fuggiranno".

Ieri i talebani hanno fissato un ultimatum di una settimana al governo di Parigi per ritirare le truppe dall'Afghanistan e hanno chiesto la scarcerazione di alcuni loro combattenti per la liberazione dei due cooperanti francesi rapiti all'inizio di aprile.

La repubblica, 21 aprile 2007

sabato 21 aprile 2007

Uccidere in nome dell’islam in Iran

Roma. Sei giovani basiji hanno ucciso in nome dell’islam cinque persone “moralmente corrotte”. Ma non saranno condannati a morte, pena prevista dal codice islamico iraniano per punire gli assassini: la Corte suprema di Teheran, rovesciando i verdetti di tre tribunali, li ha assolti. Al massimo, toccherà loro pagare una multa: il “denaro di sangue” – come si dice nella Repubblica islamica – 40 mila dollari alla famiglia della vittima per la vita tolta a un uomo, la metà se si tratta “soltanto” di una donna. I sei basiji scampati al patibolo – anche se la sentenza potrebbe non essere ancora definitiva – hanno convinto i giudici della Corte suprema raccontando di aver agito seguendo gli insegnamenti di un religioso islamico, che avrebbe spiegato loro: se le persone da voi ritenute moralmente corrotte non cambiano atteggiamento dopo il secondo avvertimento e se la giustizia non ha ancora preso provvedimenti contro di loro, siete liberi di ucciderle. Secondo il codice penale iraniano, l’accusa di omicidio cade se sussiste la prova che le vittime erano “moralmente corrotte”. Un po’ come una giusta causa.
Gli assassini hanno poco più di vent’anni. La milizia paramilitare cui appartengono è ben conosciuta fuori e dentro l’Iran: è quella di cui si vanta di aver fatto parte anche il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Nata dalla mente dell’ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1979, è celebre per i suoi piccoli soldati martiri, i bambini che formavano l’avanguardia dell’esercito durante la guerra con l’Iraq, negli anni Ottanta, mandati in prima fila sui campi minati, una chiave di plastica “made in Taiwan” appesa al collo, per aprire le porte del paradiso dopo essere saltati in aria, come ha raccontato lo studioso Matthias Küntzel. Oggi le milizie volontarie basiji si occupano ufficialmente di sicurezza, ma soprattutto vigilano sul rispetto delle leggi islamiche: improvvisano check point, fermano le automobili per controllare se l’alito delle persone a bordo puzza d’alcol, se le donne sono truccate o viaggiano con uomini non appartenenti al loro nucleo familiare, monitorano giornalisti, attivisti, proteste studentesche, come ricorda un rapporto dell’Agenzia per i rifugiati dell’Onu.
Tra le cinque vittime “moralmente corrotte” c’è una coppia di giovani: i basiji l’hanno accusata di aver avuto rapporti sessuali al di fuori del matrimonio, ma l’unica colpa dei due – scrivono i giornali iraniani – è stata quella di aver camminato in pubblico da semplici fidanzati. La serie di assassini risale al 2002. Nella città di Kerman, nel sud-est del paese, ci furono diciotto assassinii legati alla difesa della “moralità islamica”: soltanto cinque sono stati imputati al gruppo dei sei basiji. I miliziani hanno fermato la giovane coppia a passeggio, l’hanno trascinata fuori città e lapidata. Hanno finito i due gettandone i corpi in uno stagno dalle acque poco profonde, affogandoli dopo essersi seduti sui loro toraci. I macabri dettagli sono il frutto dei racconti e delle confessioni degli stessi miliziani agli agenti della polizia. Una delle altre cinque vittime è stata sepolta viva, le altre abbandonate senza acqua e cibo in mezzo al deserto, pasto per le fiere. Tre tribunali, prima della Corte, avevano individuato nella brutalità delle morti un accanimento eccessivo, ma i giudici supremi hanno ribaltato le sentenze. In nome della morale islamica.

Il foglio, 21 aprile 2007

giovedì 19 aprile 2007

Telecom: Ue, in Italia c'è protezionismo

Lettera a Barroso del commissario Reding: l'Eurogoverno deve rimanere vigile, in Italia rimangono pressioni protezionistiche.

BRUXELLES (BELGIO) - La Commissione europea deve «rimanere vigile» sulla vicenda Telecom Italia perchè questa dimostra che nel Paese permangono «pressioni protezionistiche» nel settore delle telecomunicazioni. È quanto chiede il Commissario europeo alla Società dell'informazione e dei media Viviane Reding in una lettera inviata a tre commissari Ue (Kroes, McCreevy e Piebalgs) e al presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, dopo la sua conversazione telefonica della settimana scorsa con il ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni.
PRONTI A INTERVENIRE - La Reding si è detta pronta a intervenire nei confronti dell'Italia se le attese proposte legislative nel settore delle Telecomunicazioni non saranno conformi ai Trattati costitutivi dell'Unione europea. La Reding ha infatti proposto di mantenere «contatti molto stretti nei prossimi giorni» con i colleghi alla Concorrenza (Neelie Kroes), al Mercato interno (Charlie McCreevy) e all'Energia (Andris Piebalgs) sulla vicenda Telecom proprio per preparare una risposta «chiara e tempestiva» dell'Eurogoverno all'Italia «se sarà necessario».
LA LETTERA - Nella lettera la Reding spiega di aver subito chiamato il ministro Gentiloni sulla base di «allusioni» secondo cui «la proposta modifica legislativa era motivata da tendenze protezionistiche». La Reding, infatti, voleva «ricordare» al ministro della «necessità di assicurarsi che qualsiasi obbligo legale doveva essere pienamente in linea con la legislazione europea». La Commissaria spiega poi ai colleghi di avere «attirato l'attenzione del ministro Gentiloni sul fatto che un rimedio nelle telecomunicazioni come la separazione funzionale... poteva essere imposto solo dal regolatore nazionale Agcom sulla base di una robusta analisi di mercato che identificasse un problema di concorrenza di rilievo». La Reding riferisce poi ai suoi colleghi: «il ministro Gentiloni mi ha spiegato la situazione politica, ma mi ha riassicurato che la legislazione attualmente prevista in Italia sarebbe pienamente in linea con la legislazione Ue e che, contrariamente ad alcune indiscrezioni dei media, ciò che il ministro prevedeva non era un'azione unilaterale da parte del Governo, ma di dare al regolatore nazionale il potere di chiedere a Telecom Italia, se necessario, di separare la sua rete di accesso dalle sue attività nei servizi». La Reding «spera che la questione sia adesso sufficientemente chiara per le autorità italiane», ma i timori restano. «Tuttavia - prosegue infatti la missiva -, alla luce di esperienze passate, sono convinta che sia necessario rimanere vigili». Infatti, sottolinea riferendosi all'Italia, «questo episodio dimostra che ci sono ancora pressioni protezionistiche negli stati membri che incidono sul settore delle telecomunicazioni così come su altri settori strategici». Questo, osserva, «potrebbe avere effetti dannosi sul mercato interno». Un discorso, questo, che vale anche per altri settori. Ed è per questo che la missiva è indirizzata non solo alla Kroes e McCreevy, ma anche al responsabile dell'Energia, Piebalgs. Proprio la Kroes, infatti, ha di recente denunciato comportamenti protezionistici nel settore. Da parte sua, la Reding propone di mantenere «contatti molto stretti nei prossimi giorni» con i tre colleghi sulla vicenda Telecom. Una sorta di «telefono rosso», commentano fonti vicine al dossier , per gestire il caso. «Attraverso uno stretto contatto - conclude la lettera -, saremo in grado di essere pronti per il momento in cui le proposte legislative in Italia diventeranno più concrete, e saremo capaci di rispondere con una posizione chiara e tempestiva della Commissione se sarà necessario. Soprattutto, dobbiamo assicurarci che questa forma di normativa non sia influenzata da tendenze protezionistiche».

Corriere della sera, 18 aprile 2007

mercoledì 18 aprile 2007

Credibilità zero

La British Aerospace ha comprato alcune aziende americane della difesa, ma manager e ingegneri inglesi non possono avere accesso alle loro tecnologie ritenute dal Pentagono «strategiche» per la sicurezza nazionale e perciò rese inaccessibili a qualunque soggetto straniero. Una vecchia legge in vigore negli Stati Uniti vieta al capitale estero di acquistare una compagnia aerea americana. Il magnate australiano Rupert Murdoch si è dovuto fare cittadino americano per poter costruire un impero mediatico negli Usa (la rete nazionale Fox, varie «cable tv» e giornali come il New York Post).
Il liberismo economico che caratterizza il sistema americano non è assoluto: in alcune aree il possesso di aziende è sottoposto a vincoli anche più stretti di quelli in vigore in Italia. La vicenda At&t-Telecom, con la repentina decisione del gigante Usa di ritirare l'offerta per il controllo della società italiana, danneggia la credibilità del Paese come possibile partner industriale e finanziario non perché è stato rivendicato il ruolo strategico di un settore o di un'impresa, ma perché, ancora una volta, tutto ciò è avvenuto non al momento di fissare regole «uguali per tutti», ma solo dopo l'offerta lanciata da americani e messicani.
Come al solito la politica italiana scopre l'interesse nazionale—una protezione che, con modalità e livelli di intensità diversi, c'è in ogni Paese — quando è troppo tardi. E si considera in diritto di rimettere indietro le lancette dell' orologio. E' un grosso errore. Nel merito perché, intervenendo «a posteriori », si finisce sempre per creare un'interferenza politica nelle dinamiche di mercato: oggi tra gli analisti Usa si parla di ritorno al vecchio dirigismo italiano e anche di uno sgradevole aroma di antiamericanismo diffuso da questa vicenda. Ma l'errore è anche nel metodo perché, osservato dall'esterno, lo spettacolo di esponenti politici che si azzuffano quotidianamente e di ministri che dichiarano a getto continuo pro e contro l'affare, è francamente desolante.
Probabilmente l'offerta dell'At&t non sarebbe andata comunque a buon fine, ma chi oggi gioisce per il «salvataggio della Patria telefonica», dovrebbe riflettere su un dato: At&t non stava cercando subdolamente il colpo gobbo. E' solo la più grande società di telecomunicazioni del mondo (vale 242 miliardi di dollari) che, volendo crescere anche all'estero, aveva individuato la possibilità di acquisire un importante «asset» europeo con un investimento abbastanza limitato (2 miliardi di euro). Davanti alla levata di scudi, ha deciso di rivolgere altrove il suo interesse.
A noi rimane la proprietà nazionale di Telecom e l'immagine di un Paese nel quale è difficile investire. Incertezza delle regole, scarsa trasparenza, problemi di corruzione e illegalità dilagante li hanno anche altri Paesi. In genere sono quelli emergenti, come la Cina. Che riescono comunque ad attirare investimenti: le imprese rischiano perché lì il costo del lavoro è bassissimo e i mercati locali stanno crescendo molto rapidamente. L'Italia dovrebbe far parte di un altro mondo: quello delle democrazie industriali avanzate, che non crescono come l'Asia, ma hanno l'appeal della tecnologia, della stabilità e della credibilità.

Massimo Gaggi, 18 aprile 2007

Telecom-At&t

Il caso Telecom-At&t provoca la reazione dell’ambasciata americana. C’è una grande differenza sulla presenza del governo nell’economia tra Italia e Stati Uniti, ha detto l’ambasciatore Ronald Spogli. Negli Stati Uniti “il governo stabilisce le regole, che in certi settori sono molto importanti e molto dure, però lascia che i settori si sviluppino nella maniera giusta, in Italia c’è una lunga tradizione di una presenza molto più forte del governo negli affari dell’economia”. Usciti i tex, in bilico i mex, le ipotesi considerate dai bookmaker sono due: cordata italiana (con un posto anche per l’Imsi di Colaninno e la Fininvest dei Berlusconi) oppure Telecom Europa. E’ qui il finale della partita tra Romano Prodi e Marco Tronchetti Provera. Il primo ieri esternava con mal celata euforia da Tokyo dov’era in visita. Il secondo da un convegno alla Bocconi di Milano ostentava sicurezza di fronte all’ennesima batosta politica. Il premier dà quasi l’impressione di avere in tasca l’elenco di chi a breve potrebbe uscire allo scoperto come nuovo azionista. “Il desiderio che rimanga in mani italiane è scontato – dice Prodi – poi però vinca il migliore. L’uscita di At&t è solo un atto di una lunga commedia, o tragedia, o film. La partita sarà ancora lunga. Credo che avremo una pluralità di protagonisti in futuro. Andremo verso un raggruppamento di imprese europee, ed è probabile che diventi un elemento positivo per avere più influenza nella futura capacità decisionale, anche se è ancora una cosa da decidere”. Qualcuno – ha mandato a dire Prodi verso Milano e il Messico – fa “ipotesi che tutto ciò possa avvenire attraverso partecipazioni extraeuropee, non è necessariamente un vantaggio”.
Immediata la risposta di Tronchetti che riprende quanto detto lunedì sera a Ferruccio de Bortoli (“Li hanno fatti scappare”), ma rilancia la palla per scrollarsi di dosso la patente dello sconfitto. “Pirelli sta valutando di cedere la propria partecipazione in Olimpia, ma come detto più volte venderà solo al giusto prezzo”.

Yankee go home?

Milano. Ci sarà un giudice a Roma? E’ una domanda che, all’indomani dell’abbandono degli americani di At&t, comincia a circolare nei mercati finanziari. Il fallimento della vendita di un terzo delle azioni Olimpia a un prezzo di 2,82 euro, che fa premio sia sul loro valore di mercato sia sull’offerta di 2,7 euro per azione delle banche, è il dato di partenza. La questione da sciogliere è appunto se di questo mancato guadagno possa essere chiamato a rispondere chi, di tutta evidenza, l’ha causato: il governo. A questo proposito, non solo è illuminante la lettura dell’escalation di dichiarazioni bullistiche di molti ministri (a partire dal sabotatore Antonio Di Pietro), ma anche e soprattutto la lettera con cui Randall Stephenson, direttore generale di At&t, comunica la sua decisione a Marco Tronchetti Provera. La missiva parla di “regulatory uncertainties”, che, in italiano corrente, significa che le reiterate minacce, più o meno circostanziate (si va dal ventilato esproprio della rete telefonica fissa al papale “yankee go home”), hanno creato un clima talmente instabile da impedire la formalizzazione di un accordo.
Dal punto di vista della tecnica di intimidazione politica, si tratta di un copione parallelo a quello che ha portato al fallimento della trattativa Autostrade-Abertis. Con due differenze sostanziali, però: in questo caso, la trattativa viene abbandonata in fase preliminare, senza che sia stato stilato un piano industriale; e, da parte del governo, sono arrivati molti tuoni ma nessun atto formale. “Al di là del profilo meramente giuridico – spiega Giorgio Rebuffa – c’è un tradimento del dovere dello stato a essere terzo e neutrale: il governo manovra le pedine secondo le sue convenienze. Quindi, il prodismo è una sorta di fase senile del leninismo: con quelle che abbiamo voluto chiamare privatizzazioni, siamo passati dalla Nep al capitalismo monopolistico di stato”. La distanza tra causa ed effetto – dichiarazioni di ministri e leader di partito e marcia indietro di At&t – è ampia, ma non incolmabile, tanto che alcuni studi legali starebbero ipotizzando delle possibili strategie. In primo luogo, la Cassazione ha sancito l’obbligo di buona fede della Pubblica amministrazione e la sua responsabilità civile quando viene interrotta una negoziazione.

martedì 17 aprile 2007

Anno zero? Zero.

Dimentichiamo in fretta, quando ci fa comodo. Questa volta vorrei non succedesse. Mi piacerebbe che tenessimo ben ferme nella memoria alcune cose della puntata di Anno Zero dedicata a Emergency e al sequestro Mastrogiacomo.
Per esempio l’immagine di Luciano Violante, ospite d’onore del programma. Violante ha ascoltato per oltre due ore tessere gli elogi di terroristi e talebani, ha visto dipingere gli Stati Uniti, la Nato e l’Occidente come la causa prima dei mali del mondo, ha sentito deridere i nostri soldati inviati in Afghanistan come fantocci al soldo dell’imperialismo americano. E non ha fatto una piega: una sfinge, una statua di cera, nemmeno un cenno di protesta, neanche un timido tentativo di rettifica, lui che è stato anche presidente della Camera e un po’ di senso dello Stato dovrebbe pure essergli rimasto. Il modello che ci voleva per i giovani a cui cerchiamo di insegnare che la politica è un luogo di valori e non un mercato di complicità e di silenzi sulle tragedie della Storia.
Mi piacerebbe anche che non si dimenticasse l’espressione golosa di Vauro, il portavoce di Emergency, quando ha potuto finalmente sventolare la sua vignetta che dipingeva Magdi Allam proprio come lo ritraggono gli estremisti dell’islam che lo hanno condannato a morte e costretto a vivere sotto scorta: un nemico che deve essere eliminato il più presto possibile. Anche Magdi Allam era presente in studio, ma per oltre due ore gli hanno impedito di parlare e raccontare la sua versione della guerra in Afghanistan e del terrorismo islamico, sommerso dalle interruzioni di Santoro, dalle farneticazioni di Marco Travaglio e Giulietto Chiesa, quel signore che sostiene come l’11 settembre sia tutta una montatura e che sono stati la Cia e gli israeliani a buttar giù le Torri Gemelle. Vauro ha scritto una lettera al Corriere della Sera per difendere la sua scelta, ricorrendo al solito ritornello: la satira non ha limiti, è libera e intoccabile. Anno Zero ha dedicato una delle sue ultime trasmissioni agli imam integralisti delle nostre moschee, quelli che ci vorrebbero vedere tutti impiccati al palo della luce più vicino, in nome del Corano e di Maometto. Non ricordo che in quell’occasione Vauro abbia onorato il coraggio della satira raffigurando qualcuno di questi predicatori con il Corano nelle mani o con Maometto come ispiratore. Meglio colpire dove si va sul sicuro e non si rischia la pelle, la libertà della satira sarà per un’altra volta.
Vorrei che non dimenticassimo troppo in fretta questo capolavoro di manipolazione andato in onda su una rete televisiva del servizio pubblico tra l’indifferenza degli organi di vigilanza e di controllo e di molta parte della stampa nazionale. Che ci ricordassimo a lungo come le idee di Gino Strada e di Emergency («i veri tagliagole siamo noi») siano entrate nelle case degli italiani senza un vero contraddittorio perché il copione era già scritto e le battute fuori testo non dovevano rovinare un finale già assegnato. Sarebbe bene che tutto questo restasse a lungo nella memoria del nostro Paese. A qualcuno forse servirà a capire meglio come stanno le cose e dove stiamo andando. Ma non sarà un esercizio inutile anche per quelli, come Violante, schierati al fianco di Santoro.
Nella sciagurata ipotesi di un nuovo sequestro in Afghanistan, ora che Emergency si è messa fuori gioco, sapranno chi mandare a trattare con i talebani: ci penseranno la troupe di Anno Zero e Vauro con le sue vignette. Saranno anche assassini all’ingrosso, ma i mullah di quel Paese la nostra televisione la guardano e sanno riconoscere i loro amici.

Daniela Santachè, 17 aprile 2007

sabato 14 aprile 2007

Democrazia

Considerato che: il partito nascituro si chiamerà manco a dirlo “democratico”; che adesso anche Di Pietro rilascia ogni giorno patenti di democrazia e che il massimo della democrazia sembra rappresentato dal blog di Beppe Grillo. Considerato che se Wolfowitz raccomanda l’amante è la prova che non c’è democrazia; se Pansa scrive il libro che ha scritto si tratta di un attentato alla democrazia; che quando un erede di Borrelli può fare arrestare qualcuno, quello allora è il trionfo della democrazia. E considerato che tutte le volte che qualcuno muove il culo, spunta immancabilmente qualcun altro che pone subito un problema di “rispetto della democrazia”. Considerato questo. Preso atto del fatto che Berlinguer era un supercampione di democrazia e Craxi no. Che Violante sì e Pannella dipende. Che Intini guai ma a un certo punto sì. Che Travaglio sì, che Franca Rame certamente, che Padoa-Schioppa e i tecnici ci mancherebbe altro, e che ridere delle amanti dell’Amor nostro è democrazia mentre ridere delle fuitine di Sircana è un attentato alla democrazia, si chiede allora all’alleato Bush: siamo convinti di voler esportare una ciofeca del genere?

Andrea's version, 14 aprile 2007

venerdì 13 aprile 2007

Via Lenin

Il silenzio di Walter Veltroni e con lui di tanti altri sindaci italiani di centrosinistra, i quali continuano a far finta di niente di fronte alla proposta di togliere il nome di Lenin dalle vie e dalle piazze delle loro città sta diventando, prima che imbarazzante, incomprensibile. Ma come? Piero Fassino, il segretario del maggior partito del centrosinistra (che tra l’altro è anche il partito di Veltroni) sta per recarsi in Russia per rendere omaggio «agli italiani vittime dei gulag», e loro si ostinano a ospitare nella toponomastica delle proprie città colui che il sistema dei gulag ordinò di istituire, rinchiudendovi migliaia di persone e poi assistendo imperturbabile al loro martirio? Nei libri di storia è tutto scritto da decenni. Ma a che cosa serve, chiedo, predicare la custodia della memoria e l'amore per i libri, come Veltroni per esempio non si stanca di fare, se poi si calpesta in questo modo l'una e ci s'infischia degli altri.

Ernesto Galli Della Loggia, 13 aprile 2007

sabato 17 marzo 2007

Le telecamere di Amato e la macchina fotografica di Scarfone

Dentro quest’ultimo secchio della spazzatura la sovraeccitazione da scandalo è trans. Trans come Vladimir Luxuria che siede tranquilla in Parlamento, racconta dei suoi gatti e delle sue pantofoline rosa, raccoglie i capelli, va in tivù, vota la Finanziaria, si veste sobriamente da donna ed è molto carina, molto pacata, fino a ieri persino molto certa di essere il simbolo di una modernità accogliente e reale, non solo da gabbietta espositiva: un’onorevole transessuale che al massimo dovrà subire qualche sciocca battuta sul bagno da usare alla Camera, ma potrà esprimere con disinvoltura i bisogni di un mondo allegro e riconosciuto, perfettamente mescolato agli altri mondi in nome del saper stare in società sorridendo, in nome anche di una legge che regolerà i rapporti, le eredità e le convivenze fra persone dello stesso sesso – che poi si vestiranno come credono. Invece adesso il trans, anzi l’idea potente di andare “a transessuali” di notte dentro una macchina per le strade di Roma (come da indecenti intercettazioni pubblicate dappertutto) ha svelato al mondo una stupefacente invasione di vecchie zie zitelle col fazzolettino di pizzo nella manica.

L’insinuazione, avvolta in sgangherate maldicenze telefoniche, che il portavoce del governo possa farsi gli affari propri in privato e divertirsi come crede la notte è parsa gigantesca, terrificante: tutti negano, corrugano la fronte, giurano che Silvio Sircana è una bravissima persona, “moralmente ineccepibile”, vittima di un vergognoso complotto politico, e il presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha detto che si schiera al suo fianco perché gli crede, cioè crede alla normalità sessuale e notturna del suo collaboratore, è certo che mai e poi mai farebbe certe cose la notte con gente tipo Vladimir Luxuria (che saggiamente dovrebbe offendersi e uscire da quella gabbietta d’oro).

Ma non eravamo moderni, fichissimi e mondani? Orgogliosamente consapevoli della complessità umana, soprattutto gonfi di naturalezza nell’osservare il mondo e attenti a non chiamare mai trasgressioni i normali usi e abusi quotidiani. Invece all’improvviso spunta qualche immaginato trans in minigonna sulla Salaria e casca il mondo. Con un’isterizzazione totale, colma di un giudizio morale fuori moda, con uno stupore nervoso antiquato e controtendenza. E, naturalmente, con liberatorio disprezzo verso il fotografo, Massimiliamo Scarfone (“io giro come una trottola tutta la notte per fare foto di gossip da parrucchiere”), che ha creato in un istante quel che il sindaco di Roma vorrebbe da tempo fare in città, quel che il ministro dell’Interno Giuliano Amato propone dappertutto sulle strade delle lucciole. “Quando si cita la privacy a difesa di uno squallido maschio che gira per la Salaria alla ricerca di ragazze dalle quali ottenere a pagamento ciò che non sa ottenere altrimenti, beh, della sua privacy mi interessa ben poco”, disse Amato sul finire dell’estate, ma adesso è molto turbato da questa brutta storia e vuole fermare la violenza delle intercettazioni con una legge. Amato e Veltroni vogliono le telecamere per spiare i clienti delle puttane, purtroppo Massimiliano Scarfone aveva solo una macchina fotografica.

Annalena Benini, 16 marzo 2007.

domenica 11 marzo 2007

Le vie del leninismo

Su Lenin e dedicato ai sindaci delle città italiane (a cominciare da Walter Veltroni) che hanno una via o una piazza dedicata al rivoluzionario comunista. Il quale così scriveva in una lettera ai membri del Politburo nel marzo del 1922: «Fate approvare dal congresso una risoluzione segreta con la quale si stabilisca che la confisca dei beni, in particolare dei beni di enorme valore delle abbazie, dei monasteri e delle chiese deve essere condotta con determinazione spietata, senza fermarsi davanti a nulla e nel più breve tempo possibile. Più rappresentanti del clero e della borghesia reazionaria riusciremo a uccidere per questa ragione e tanto meglio sarà. Dobbiamo dare a questa gente una lezione adesso, così che per molti decenni non oseranno neppure pensare ad una qualsiasi resistenza». (dalla raccolta di documenti segreti sovietici, The Unknown Lenin, a cura di Richard Pipes, Yale University Press).

Verdi?

Che paura di morire devono avere i Verdi! Lo dico perché solo così si spiega come mai, pur dopo giorni e giorni da che si è saputo che l’Inghilterra si appresta ad autorizzare l’inserimento di Dna umano entro ovuli animali (naturalmente per la nostra salute, come no! ci mancherebbe altro) nessuno di loro, ma proprio nessuno mi pare, ha trovato modo di levare la minima protesta, la minima rampogna. Ma come? Per l'uso in agricoltura degli organismi geneticamente modificati parole di fuoco, appassionate invocazioni al principio di precauzione, pressioni (coronate da successo) perché l'Europa li mettesse al bando; e invece per le modifiche riguardanti materiale genetico umano, niente? Per un seme di pisello manipolato una canizza d’inferno e apocalissi alle porte, e invece per la prospettiva di un bell’embrione umano con dentro un pizzico di coniglietto silenzio di tomba? Come si spiega? Qualcuno ce lo vuol dire?

Il matematico triviale

«Lo stesso termine cretino deriva da cristiano»; il Cristianesimo, «essendo una religione per letterali cretini, non si adatta a coloro che, forse per loro sfortuna, sono stati condannati a non esserlo»; ancora: «Se Gesù fosse risorto ad Haiti non sarebbe altro che un letterale Zombie»; sempre Gesù poi nacque «dalla fecondazione eterologa da parte dello Spirito Santo di un ovulo di Maria», che pertanto è «una madre surrogata che si è limitata a dare l'utero in affitto»: e così via per 260 pagine, Piergiorgio Odifreddi, star dell'ateismo italiano, nel suo appena uscito Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) (Longanesi editore). Al quale il Comune di Roma ha affidato la direzione scientifica dell'imminente Festival di Matematica all'Auditorium. Una sola domanda al sindaco Veltroni: avrebbe mai affidato un tale incarico a qualcuno che le battute da trivio suddette, invece che sul Cristianesimo, le avesse scritte sull'Islam?

Pantheon

Il Pci è «quel partito che approva incondizionatamente la integrale soppressione della libertà di stampa nei paesi al di là della cortina di ferro; quel partito che trova stupendo, miracoloso tutto ciò che è approvato dal "grande compagno Stalin": anche (…) la imposizione dall'alto della linea da seguire in ogni attività culturale, compresa la musica e la glottologia; le condanne capitali contro i "deviazionisti" della vecchia guardia e i campi di lavoro forzato per gli oppositori; il partito che non ha mai fatto mistero della sua intenzione di instaurare, non appena sia possibile anche nel nostro paese, un regime totalitario, sull'esempio e sotto la stessa guida della "dittatura del proletariato" esistente nell'Urss». Ma dove altro può accadere se non in Italia che chi scrive così nel 1952 — è Ernesto Rossi, sul «Mondo» — si ritrovi poi dopo mezzo secolo nel pantheon di coloro che si dicono tuttora convintissimi invece della grande funzione democratica del partito di cui sopra?